Come nel sogno di Giacobbe: salire e scendere la scala con gli angeli




Ieri, in occasione della Messa per la festa dei SS.Pietro e Paolo, la mia attenzione è stata attirata completamente da un passo della prima lettura:

"L’angelo disse: «Avvolgiti il mantello, e seguimi!» . Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva infatti di avere una visione" (At.12,9-10).

Mi sono chiesta: come può una persona non distinguere una visione dalla realtà? Poi ancora: se questa visione poteva essere confusa con la realtà è possibile che Pietro fosse abituato, almeno dopo la Pentecoste, a vivere esperienze spirituali che coinvolgevano tutto il suo essere...


L'ho invidiato...e mi sono ricordata di un commento di Papa Benedetto nella Deus Caritas Est che parla dell'amore come esperienza dell'uomo totale, in tutte le sue dimensioni:


"I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l'eros che cerca Dio e l'agape che trasmette il dono ricevuto. In quel testo biblico si riferisce che il patriarca Giacobbe in sogno vide, sopra la pietra che gli serviva da guanciale, una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio (cfr Gn 28, 12; Gv 1, 51). Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa Gregorio Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo intimo, cosicché diventino sue: « per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat ».San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti . Inoltre indica l'esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. « Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur »".


In questo brano, a mio avviso, di grande spessore filosofico, oltreché teologico, Papa Benedetto ci parla di un uomo che contempla Dio intimamente e con tutto se stesso e, pertanto, riesce a relazionarsi con gli uomini profondamente e con tutto se stesso.

Nel mio lavoro e nell'esercizio del ministero di guarigione trovo che la mancanza di questa dinamica tra ascesa e discesa provochi delle ferite dolorosissime. Mi sono sentita anche confermata dalle parole di Padre Raffaele che nel suo saluto al cardinale ha scritto che, sempre di più, anche noi cristiani, siamo immersi nella dittatura del relativismo e in un sociologismo religioso che ci toglie la speranza nella vita eterna.

Durante gli studi accademici e post accademici, ci hanno fatto leggere e studiare tantissimi testi sull'integrazione. Si proponeva di integrare le risorse provenienti dalle diverse scuole di psicoterapia, di integrare i contributi delle diverse scienze umane e di realizzare un metodo di lavoro per il benessere psicologico che considerasse tutto l'uomo. Per molti aspetti, l'integrazione mi ha convinto...


E'una dinamica profonda, ma semplice che, come una spirale, vivifica il singolo uomo e la comunità: credere e lasciare che l'uomo-Dio, Gesù possa salvare lo spirito, la psychè(mente e ragione) e il corpo di ogni uomo come un'unità. L'esperienza di questo amore, che rende l'uomo in grado di toccare Dio, ci fa desiderare che anche gli altri vivano con noi e attraverso di noi questa unità!






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