In questo periodo dell’anno, mi piace soffermarmi a meditare sul grande patrimonio religioso e culturale napoletano che riguarda le anime dei morti. È un culto che amo profondamente: una forma di comunione tra i vivi e i defunti che nessuno è mai riuscito a interrompere.
Tra le anime che riposano negli ipogei di Napoli, ci sono le anime abbandonate, quelle dimenticate, senza nome, senza preghiere. Eppure, proprio verso di loro, il popolo napoletano ha sviluppato una delle forme più intelligenti e misericordiose di spiritualità: l’adozione dell’anima abbandonata.
Nella tradizione partenopea, un’anima abbandonata può essere “adottata” da un vivente, che si prende cura di lei con preghiere e gesti d’amore, senza giudicarne la vita o i peccati.
È un atto rivoluzionario, soprattutto se pensiamo che, in alcuni periodi della storia, la Chiesa cattolica proibiva di pregare o seppellire certe categorie di morti.
Il popolo napoletano, però, ha scelto la misericordia, superando i confini della dottrina e vivendo la compassione. Ha pregato per chi non aveva nessuno, stabilendo un legame di comunione tra cielo e terra che ancora oggi commuove.
Il legame con le anime abbandonate si esprime anche nella vita concreta: chi si prende cura dei defunti dimenticati, lo fa attraverso gersti concreti in cui riconosce e consola gli “abbandonati” vivi — coloro che sulla terra sperimentano la solitudine e la mancanza d’amore.
Questo legame nutre tutti:
- i vivi, che ricevono grazie;
- i morti, che vengono “abbelliti” e preparati all’incontro con Dio;
- i sofferenti, che ritrovano dignità attraverso la carità.
Oggi, purtroppo, le giornate del 1 e 2 novembre sono spesso vissute con confusione o superficialità, e la grande cultura napoletana del culto dei morti viene dimenticata.
Così novembre passa come un mese qualunque, perdendo il suo significato più profondo: quello della cura dell’altro e della comunione tra cielo e terra.
In questo mese, amo pregare non tanto per le anime dei miei cari — per loro prego sempre — ma per chi non conosco, per chi forse, se lo avessi incontrato in vita, non avrei saputo amare.
Per quei “mendicanti del Cielo” che ancora oggi, nel XXI secolo, molti non ritengono degni del Paradiso.
La bellezza della speranza cristiana è proprio questa: credere che, per amore, possiamo metterci tra una persona e la morte, accompagnandola davanti a Dio con la preghiera e con gesti di carità.
---
Anche il torrone dei morti, che prepariamo in questi giorni, ci ricorda le parole del Cantico dei Cantici:
“Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6).
È un invito a continuare a far circolare quella corrente d’amore che ci definisce come popolo.
A ricordare chi è stato abbandonato, chi si è sentito solo, chi nessuno ha saputo amare o ricordare.
---
La tradizione di abbellire la capuzzella — decorare un teschio con segni di devozione — è un gesto che va oltre il simbolo: è un modo per ridare dignità alle anime più povere di amore ricevuto.
Così, anche loro possono presentarsi a Dio “abbellite”, come quella Sposa dell’Agnello di cui tutti siamo chiamati a far parte.
Maranathà, vieni Signore!




Commenti
Posta un commento